10.
Attenti al postino!
— Mamma mia, che postaccio! — esclamò Fabò, una volta che furono usciti dal tribunale. — Non ci rimetterei piede per nessuna ragione al mondo. Mi sentivo soffocare. Ed era come se mi stessero guardando tutti.
— È perché hai la coscienza sporca — lo freddò la sorella.
Fabò saltò un sacco della spazzatura. — Macché! Qui di sporco ci sono solo le strade.
Annette guardò verso l’ingresso del tribunale, pensando a quanto aveva appena ascoltato, poi si accorse che, davanti allo stesso lampione dove avevano incontrato Janvier, c’erano un uomo e una bicicletta.
— Signor Cormolles? — domandarono all’unisono i due fratelli quando lo riconobbero. — Che cosa ci fa qui? Il postino aveva la stessa espressione truce della sera prima. Indossava la sua divisa da lavoro e il cappello spiovente sulla fronte, con una visiera lunga quasi quanto il suo naso. Sembrò molto seccato di vedere arrivare solo i due ragazzi e non l’avvocato Janvier.
— Ah... ecco... buongiorno, ragazzi — disse, come se ogni parola gli costasse una gran fatica. — Ho finito il mio turno del mattino e... poiché ero da queste parti, ho pensato di... venire a dare un’occhiata. La signora Barduchon è con voi?
— Se n’è andata un’oretta fa.
— E... l’avvocato?
— È dentro, in tribunale, che parla con un suo vecchio amico.
Il postino annuì toccandosi un paio di volte il berretto. Annette notò una copia arrotolata di Le Monde che gli usciva dalla tasca del giubbotto.
— Hanno deciso di trattenere Deloffre per quattro giorni — disse.
Victor sollevò il volto da furetto. — Ah —. Rimase un attimo in silenzio, poi chiese: — E... c’era anche... la polizia, nell’aula?
— Un paio di gendarmi.
— Hanno detto qualcosa sulle indagini? Voglio dire... sapete se ci sono dei poliziotti... a casa di Deloffre?
Annette e Fabò scossero il capo.
— Se vuole, possiamo telefonare a mio padre.
— No! — esclamò Victor, come se si fosse scottato. — Era solo per capire se... voglio dire... rue Charlot non è lontano da qui...
— Venti minuti a piedi. Cinque in bici — disse Fabò dando un calcetto alla ruota posteriore della bicicletta di servizio di Victor. — Oh, scusi! Non volevo!
Lo scusi, signor Cormolles — si intromise Annette. — Mio fratello a volte è così... impulsivo. Sii educato con il signor Cormolles.
— Victor — disse il postino. — Chiamatemi Victor, per favore.
— Come preferisce, signor... volevo dire... Victor.
— L’avvocato ci starà ancora molto, là dentro? — domandò lui annusando l’aria che sapeva di spazzatura.
— Come facciamo a saperlo? — ribatté Annette.
— E... voglio dire... voi due... dovete sempre muovervi insieme?
— Che cos’ha in mente, Victor?
— Sai stare sulla canna, ragazzo?
Una decina di minuti dopo, Victor e Fabò fermarono la bici davanti all’anonimo palazzo di rue Charlot in cui abitava il signor Deloffre. A Fabò fece una certa impressione tornare nello stesso posto in cui, solo due giorni prima, aveva preso in giro sua sorella.
Victor legò la bicicletta a un palo, servendosi di una grossa catena, poi si sistemò la divisa e il berretto.
— Il palazzo è quello? — chiese con aria di sufficienza. Gli occhi di Victor si soffermarono sulle piccole targhe luminose del citofono. — Ah-ah. C’è il nome “Deloffre” qua! — disse dopo aver dato un’occhiata.
Lui e Fabò salirono i pochi gradini che conducevano al portone d’ingresso, che si aprì con un freddo suono metallico.
— Interessante — commentò Victor. — C’è la portineria. Buonasera — salutò entrando.
L’atrio del palazzo aveva lo stesso aspetto dimesso e anonimo dell’esterno.
— Desidera? — domandò la portinaia, una donnina magra, con il viso affilato e gli occhi vicinissimi, vagamente strabici.
Victor tirò fuori dalla giacca un registro postale e improvvisò una rapida scusa. — Stiamo facendo un controllo. Posso rubarle un minuto?
— Che tipo di controllo? — si informò lei alzando per un attimo gli occhi da una rivista di enigmistica.
— Oh, un gran pasticcio... C’è un sacco di corrispondenza che... non corrisponde — spiegò Victor. — Per cui ci mandano a controllare i nomi sulle cassette delle lettere, per cercare di venirne a capo.
— E lui? — chiese la donna indicando Fabò.
— Lui va a controllare i nomi al posto mio su per le scale, ai vari piani, quando non c’è l’ascensore... —. Victor fece un’espressione furba e complice al tempo stesso. — A patto che nessuno lo riferisca giù in centrale.
L’allusione a una tecnica per evitare il lavoro in eccedenza fece breccia sulla portinaia, che evidentemente si trovò d’accordo e sorrise.
— Possiamo procedere, quindi? È questione di pochi minuti...
— Fate pure...
Victor annotò i cognomi scritti sul citofono e poi passò l’elenco a Fabò. — Forza, ragazzo... fatti un po’ di gambe su per le scale e controlla che ci siano tutti! —. Mentre Fabò scattava sulla prima rampa, si avvicinò alla portiera e le sorrise. — Gioventù, sempre piena di energia. Noi vecchi, invece, con un piede nella fossa...
— Non tocchi questo argomento, per favore — sospirò lei.
— Qualcosa che non va?
— Ma come, non lo sa? C’è stato il morto, qui. Anzi, due!
— No! — esclamò Victor, con un’autentica prova di recitazione. — E com’è successo?
Fabò non riuscì più a sentirli quando raggiunse il primo piano. Era in dubbio se annotare davvero tutti i cognomi scritti a fianco dei campanelli o salire finché non avesse trovato quello di Deloffre. Decise di fare le cose per bene, nel caso che la portinaia avesse voluto controllare, e spuntò l’elenco fatto da Victor a mano a mano che procedeva.
La scala era tipicamente parigina: stretta e ripida, con i gradini arrotondati dagli infiniti passi che li avevano sagomati e resi scivolosi.
Al terzo piano cominciò a sentire alcune voci che gli fecero rizzare le orecchie. Una in particolare lo indusse a bloccarsi all’istante, come pietrificato... Era la voce di suo padre!
— E la spazzatura? L’avete controllata?
— A dire il vero, no, signore.
— Santi numi, Pasquiat! Per quale ragione...
— Io ci ho provato, commissario, ma la pattumiera era vuota. Qualcuno deve aver portato fuori il sacco della spazzatura.
— D’accordo. Fai un tentativo per vedere se si trova quel sacco. Io adesso devo scappare in centrale.
— CERRRTO, commissario!
Fabò si fece piccolo piccolo e sbirciò attraverso la ringhiera delle scale. Si accorse immediatamente che una porta del quarto piano era socchiusa e circondata dal nastro che la polizia usa per delimitare le zone del crimine. La voce di suo padre veniva dall’interno dell’appartamento, accompagnata da un certo tramestio di piedi, dai flash delle macchine fotografiche e dalle voci confuse di altre persone. Fabò non si aspettava di trovare l’appartamento di Deloffre già occupato!
— Io me ne vado, ragazzi — annunciò sbrigativo il commissario Gaillard.
Fabò si irrigidì, sporgendosi dalla ringhiera per guardare su e giù.
— Commissario Gaillard! Aspetti! Cosa vuole che ne facciamo di questa roba?
La voce del padre si affievolì, come se si fosse allontanato dalla porta per raggiungere una delle stanze. Fabò ne approfittò e, veloce come una saetta, salì gli ultimi gradini che lo separavano dalla porta socchiusa. Intravide qualcuno all’interno ma, non volendo correre il rischio di farsi scoprire, schizzò su per le scale e raggiunse il piano superiore, dove trovò un punto d’osservazione sicuro.
— Devo proprio tornare in centrale... Fatemi avere i risultati, appena li avete... Mi basta che trovi un’impronta di Deloffre su quella bottiglia, Pasquiat, e chiudiamo il caso...
La porta si aprì e Fabò vide suo padre sollevare il nastro e uscire dall’appartamento.
Il commissario Gaillard si sporse un’ultima volta dentro per lanciare un ordine: — I vicini, ragazzi! Interrogate i vicini, ok? Voglio un rapporto per domani mattina. Meglio ancora, per stasera! —. Poi cominciò a scendere, con passo rapido e nervoso.
Fabò pensò a Victor, che si trovava al piano terra. «Speriamo che il papà non lo becchi!» disse tra sé e sé. Il fatto che si trattasse di quella vecchia volpe parigina di Victor Cormolles, tuttavia, lo rendeva più fiducioso.
Attese che il padre raggiungesse il piano terra, poi decise il da farsi. Annotò rapidamente i nomi del quinto e del sesto piano, quindi tornò davanti all’appartamento di Deloffre. Non poteva correre il rischio di farsi riconoscere da Pasquiat, l’assistente del padre, perciò scese le scale rapidissimo, col volto affondato nella felpa.
— Allora? Tutto fatto? — domandò, affannato, Victor vedendolo comparire.
— Sì. Ha visto mio padre? — gli rispose Fabò.
— L’ho schivato per un pelo. Per fortuna li sento arrivare, io, i poliziotti —. Victor guardò Fabò. — Scusa. Non volevo.
— Non fa niente. Ci sono abituato. Non a tutti sono simpatici.
— Non intendevo dire questo.
— Ha scoperto qualcosa?
Victor allentò la catena della bicicletta. — Non molto di più di quello che sappiamo già. E tu?
— Che c’è un’intera squadra di poliziotti che sta esaminando l’appartamento di Deloffre. Se c’è qualcosa da scoprire, lo scopriranno.
— Non è detto, sai? A volte, più si è più si fanno pasticci —. Victor si mise ai pedali. — Sali?
— Abbiamo fatto un mezzo buco nell’acqua, non crede?
— Chi può dirlo, ragazzo? Chi può dirlo?